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Canto di Natale

 

con
Sante Maurizi, Antonello Grimaldi, Daniela Cossiga, Andrea Maurizi, Luca Dettori, Maurizio Giordo, Antonella Masala, Antonio Careddu, Stefano Cossu, Ludovica Sanna    costumi, maschere, oggettistica Daniela Cossiga    scene Virginia Melis
allestimento, luci, fonica Michele Grandi e Paolo Palitta   assistente ai costumi Claudia Spina   adattamento e regia Sante Maurizi

Lo spettacolo è inserito fra le iniziative Dickens200 della la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari  in occasione del bicentenario della nascita di Charles Dickens.

video

Radiodramma a cura di Orson Welles con Lyonel Barrymore, 1939

La storia
Nome: Ebenezer. Cognome: Scrooge. Il vecchio e cinico Scrooge: lo strozzino, lo spilorcio, l’arraffone. L’avido Scrooge: duro come pietra, riservato, solitario, chiuso come un’ostrica. Nessuno si rivolge a Scrooge con gentilezza, nessuno gli chiede “Mio caro Scrooge, come va? Quando verrete a trovarmi?”. Tutti lo evitano. Uomini, donne, bambini: tutti. Persino i cani dei ciechi, incrociandolo, tirano il loro padrone dall’altra parte. Ma a Scrooge non importa. Anzi, tutto ciò gli piace: chiunque deve sapere che lui odia il mondo e gli esseri che lo abitano. E soprattutto odia una cosa: il Natale. Quando il suo impiegato Bob Cratchit gli chiede un giorno libero per il 25 dicembre, glielo concede a malincuore. Così come a due gentiluomini che gli chiedono di fare un po’ di beneficienza per i poveri in occasione del Natale, risponde che non sono affari suoi, e che si augura la morte di qualche bisognoso per diminuire l’eccesso di popolazione. “Buon Natale? – dice al nipote Fred venuto a fargli gli auguri il giorno della vigilia -. Cos’è mai il Natale se non la scadenza di debiti che non si ha il denaro per pagare? A Natale ti accorgi di essere più vecchio di un anno senza essere di un’ora più ricco. Fai i conti e vedi che nessuna voce del bilancio è in attivo. Festeggiate pure il Natale a modo vostro e lasciatemi in pace!” E mentre si prepara a “festeggiare” il Natale a modo suo, andando a dormire solo nella sua triste casa, gli appare, terrificante, lo spettro di Marley, il vecchio socio morto sette anni prima: condannato a vagare senza pace per l’eternità perché “se un uomo non vive con i suoi simili è condannato a farlo da morto: costretto a vedere le cose a cui non può più prendere parte, cose che in vita avrebbe potuto dividere con gli altri ed essere felice! Stasera – dice lo spettro – sono qui per avvisarti che hai ancora una speranza. Tre fantasmi verranno a farti visita. Senza di loro non sfuggirai alla mia stessa sorte!”. Una notte spaventosa si prepara per Scrooge. Come in un incubo gli appare il primo dei tre fantasmi, lo Spirito dei Natali Passati, che gli mostra alcuni episodi dell’infanzia e giovinezza: il Natale in cui sua sorella Fan venne al collegio dove l’aveva confinato il loro malvagio genitore, la gioia della festa al magazzino di Fezziwig dove Scrooge giovanotto faceva l’apprendista, l’addio di Belle, l’unico amore della sua vita. Il secondo Spirito, quello del Natale Presente, lo conduce nel calore di una festa modesta ma piena d’amore a casa Cratchit, così come c’è gioia a casa di Fred. L’ultimo fantasma, quello dei Natali Futuri, gli addita foschi personaggi che si spartiscono le sue cose e una tomba dove finirà i suoi giorni solo e disperato se non cambierà il suo arido modo di vivere.  Scrooge si sveglia. E’ una bella mattina di Natale. Il vecchio misantropo capisce di aver sprecato i suoi giorni e cambia davvero la propria vita, prendendosi cura di Tiny Tim, figlio di Bob Cratchit, e portando per sempre in cuore la gioia del Natale.

Dickens e il Natale
Il 19 dicembre 1843, quando pubblicò a proprie spese A Christmas Carol in un’edizione accurata con illustrazioni di John Leech colorate a mano , Charles Dickens era ormai uno scrittore affermato: a trent’anni → aveva già scritto, tra l’altro, Il Circolo Pickwick, Oliver Twist e La bottega dell’antiquario.
Le cartoline e i biglietti d’auguri venivano inventati proprio in quei giorni, solo il giorno di Natale era vacanza e non ci si facevano regali. Dickens e i vittoriani “inventano” il Natale. Prima nei paesi di lingua inglese e poi, anche per estensione “imperialista”, in tutto il mondo. Tutto quell’apparato di vischio, canti, agrifoglio, alberi, ghirlande, l’uso dei regali, i pacchi infiocchettati, nascono a Londra a metà dell’Ottocento, fornendo “luoghi” diversi e alternativi – mentali e sociali – a quelli della nascente metropoli moderna: così come il Natale è l’evento della Nascita e così come Scrooge “rinasce”, è il senso individuale e sociale dell’uomo nella società urbana e industriale a dover essere fondato, senza scordare i valori di solidarietà, filantropismo, etc., così tipici in Dickens. E come in sintesi notò G.K.Chesterton, Dickens trasforma il Natale da una ricorrenza religiosa  in una festa per la famiglia. E della “fondazione del Natale” il Carol è certamente fra i massimi responsabili: uno dei libri con la maggiore diffusione sul pianeta (Walt Disney chiamerà proprio “Scrooge” quello che noi conosciamo come Zio Paperone). Oltre alla sterminata serie di edizioni, illustrate o meno, del racconto si contano al momento 26 versioni su pellicola (la prima è del 1901), 24 per la televisione e 13 mediometraggi a cartoni animati. Per non parlare dell’incredibile serie di gadgets, cartoline, pupazzi, ecc.
Dickens completò il racconto in sei settimane, dedicandosi esclusivamente ad esso e scrivendo con relativamente pochi ripensamenti, così come è evidente dal ←manoscritto conservato alla Pierpont Morgan Library di New York.
Infiniti anche gli adattamenti teatrali e le letture drammatizzate, la prima delle quali fu proprio a opera di Dickens, che il 27 dicembre 1854 lesse in pubblico il Carol in occasione di una serata di beneficenza a favore dell’appena costruito Birmingham and Midland Institute (la versione in italiano del reading – a opera di Paolo Noseda – è ora pubblicata da Azimut libri). L’accoglienza fu così entusiasta che cominciò a eseguire i suoi readings a pagamento, approdando nel 1865 negli Stati Uniti per una tournée trionfale e terminando la sua carriera sui palcoscenici proprio con il Carol il 15 maggio 1870. Venticinque giorni dopo, il 9 giugno, moriva nella sua casa a Higham-by-Rochester nel Kent.

Note di drammaturgia
Due autorevoli pareri per cominciare (tratti dall’introduzione al Circolo Pickwick dell’edizione Adelphi). Mario Praz: “La pratica e la sensibilità di Dickens son quelle di un uomo di teatro”. Lodovico Terzi: “Parlando di Dickens viene spontaneo parlare di scena e usare un linguaggio teatrale, perché in lui l’elemento teatrale è fortissimo. Quello che stupisce veramente è che avesse scoperto e portato a una alto livello di maestria, cent’anni prima di Charlot, la ricetta del clown per tenere un pubblico anonimo in pugno: quando non può farlo ridere lo fa piangere e quando non può farlo piangere lo fa ridere. Dickens ci prova sempre. Il suo tentativo è quello di mantenere una presa emotiva ininterrotta attraverso le centinaia e migliaia di pagine di tutti i suoi libri, senza rifiutare alcun mezzo, espediente o improvvisazione, proprio come un attore sulla scena che debba reggere un lungo spettacolo di fronte a una platea facile a distrarsi”.
Voler mettere in scena il Carol non può che dipendere prima di tutto dalla fiducia in questa “teatralità” dickensiana: la  fiducia cioé nel credere che ci siano cose che il teatro possa raccontare attraverso i propri mezzi e facendo a meno di qualunque metalinguaggio.  Ci sono tonnellate di scritti sul rapporto tra letteratura e teatro, rapporto che è sempre stato segnato da un alto grado di conflittualità, con alterne prese di posizione nel privilegiare il teatro sulla letteratura o viceversa. Quello che è certo è che i materiali e i codici di cui si serve il teatro, solo in parte sono comuni alla letteratura. In un saggio sul teatro di Baudelaire (nei Saggi critici, Einaudi) Roland Barthes chiarisce efficacemente gli elementi costitutivi del fatto teatrale. Parla appunto di teatralità:
Che cos’è la teatralità? E’ il teatro meno il testo, è uno spessore di segni e di sensazioni che prende corpo sulla scena a partire dall’argomento scritto, è quella specie di percezione ecumenica degli artifici sensuali, gesti, toni, distanze, sostanze, luci, che sommerge il testo con la pienezza del suo linguaggio esteriore. Naturalmente la teatralità deve essere presente sin dal primo germe scritto di un’opera; è un fatto di creazione, non di realizzazione. Non c’è grande teatro senza teatralità divorante, in Eschilo, in Shakespeare, in Brecht, il testo scritto è travolto fin dal primo momento nell’esteriorità dei corpi, degli oggetti, delle situazioni; la parola precipita immediatamente in sostanze.
E poiché di questa “teatralità” – il teatro meno il testo – il Baudelaire autore di teatro (secondo Barthes) difetta, ecco che il semiologo francese elenca tutta una serie di motivi per dimostrare questa insufficienza. E conclude:
Ciò non significa che gli abbozzi drammatici di Baudelaire siano assolutamente estranei a un’estetica della rappresentazione; ma proprio in quanto appartengono a un ordine, tutto sommato, romanzesco, sarebbe semmai il cinema, non il teatro, a poterli sviluppare, perché è dal romanzo che il cinema deriva e non dal teatro. I luoghi itineranti, i flash-back, la sproporzione temporale degli episodi (…), tutto questo potrebbe fecondare, a rigore, un cinema puro.
Eccoci qua: “luoghi itineranti, flash-back, sproporzione temporale degli episodi”: è, in sintesi, la fotografia “strutturalista” del Canto di Natale. Lavorare sull’adattamento del Carol, oltre che essere divertente, può essere utile a indagare i “fondamentali” della drammaturgia. Ad esempio, se si provano a elencare i luoghi e i personaggi descritti o nominati nel racconto vengono fuori circa 60 personaggi (40 “parti” e 20 “comparse”) e oltre 30 luoghi. Troppi, evidentemente; ed è anche per questo che il passaggio dal testo letterario al testo teatrale viene detto riduzione. Ma non è solo un problema di quantità. Vi è tra i personaggi uno particolarmente presente, diciamo “ingombrante”: Charles Dickens, il narratore, che dà forma “in diretta” al racconto e con esso veicola la propria concezione del mondo. C’è una scelta possibile, quella di mantenerlo, il narratore: scelta che, ad esempio, nella versione con i Muppets è realizzata non tanto attraverso Gonzo che interpreta Dickens, ma attraverso la coppia (luogo “storico” dello spettacolo: Augusto e clown bianco, Laurel & Hardy, etc.) Gonzo-Rizzo il Ratto. È anche la scelta che ha fatto John Mortimer nella riduzione per la Royal Shakespeare Company del novembre 1994, trasformando il narratore in un “coro” le cui battute sono poi affidate di volta in volta ad attori in scena che non interpretano in quel momento alcuna parte, o all’alternarsi di discorso diretto e indiretto da parte di uno stesso attore (scelta simile a quella effettuata da Luca Ronconi per il Pasticciaccio di Gadda o per i Fratelli Karamazov). Certo è che mantenere in scena il narratore deve essere una scelta e non un espediente, essere coerente a un progetto: di regia, di testi, di spettacolo, di attore, di spettatore. Il nostro progetto era anzitutto di creare nel nostro teatro a Sassari un appuntamento natalizio cittadino che ambisse a diventare negli anni una consuetudine. Dal punto di vista drammaturgico e dell’allestimento abbiamo poi provato a rispondere semplicemente a criteri di “economicità”:
economicità della narrazione: fornire le informazioni sui personaggi e le situazioni attraverso l’azione diretta in scena;
economicità degli ambienti, quindi riduzione dei luoghi e del rapporto spazio-tempo, con particolare riguardo alle cose che i tre spiriti mostrano a Scrooge;
economicità dell’allestimento, perchè alla fine sono anche i problemi concreti della messinscena che determinano le scelte drammaturgiche.
E poi il Carol è una storia di fantasmi, e come tutte le ghost-stories deve far paura. Magari per riderci su, ma dopo. Anche in questo abbiamo voluto seguire strettamente Dickens, per il puro piacere di raccontare il più fedelemente possibile la sua storia. Perché, semplicemente, rimane (e rimarrà) la storia di Natale più bella che sia mai stata scritta.

Sante Maurizi