Angelica
di Leo Ferrero
con Matteo Addabbo Eleonora Allena Andreina Bichiri Davide Cappuccio Flavia De Camillis Alessandra Doro Daniele Foddai Andrea Gennati Alice Ghisu Claudia Manno Francesco Masala Eleonora Pintus Gianmario Piredda Elena Poddighe Daniel Rogerson Matteo Sannia Giulia Tanca
coordinamento Anna Maria Canneddu Daniela Cossiga Sante Maurizi
Comune di Sassari ass. Politiche Giovanili
scuola-polo Liceo Canopoleno progetto Scuole Aperte
Liceo Ginnasio Canopoleno – Sassari
23 aprile 2009 ore 19
Courtesy Archivi Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, musiche originali spettacolo “Angelica” di Leo Ferrero, per la regia di Gianfranco De Bosio, Stagione 1959/60
Nell’ambito delle manifestazioni organizzate dal Comune di Sassari per il 25 aprile, «Angelica» va in scena il 23 aprile 2009 alle ore 19 nell’Aula Magna del Convitto Canopoleno in via Luna e Sole. Frutto del laboratorio teatrale del progetto «Scuole aperte» promosso dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Sassari, lo spettacolo vede in scena studenti di diversi Istituti superiori della città. Vengono utilizzati alcuni brani musicali di Sergio Liberovici dall’allestimento di Gianfranco De Bosio per la stagione 1959/60, gentilmente concessi per l’occasione dal Centro Studi del Teatro Stabile di Torino.
ph Daniela Cossiga
Angelica, la libertà che tradisce
di Sante Maurizi
Arlecchino, Tartaglia, Pulcinella, Pantalone. Le maschere della Commedia dell’Arte. Solo che Arlecchino è scultore, Tartaglia sottosegretario di Stato, Pulcinella deputato, Pantalone grande industriale. Vivono in «una città immaginaria, in cui case, alberi, abitanti, costumi, rivoluzioni e governi sono un po’ semplificati». Comanda il paese un Reggente dispotico, un poeta messo a capo del governo dai generali, ghigliottinati subito dopo. Ultima nefandezza, il Reggente impone lo jus primae noctis e si prepara a esercitarlo sulla bella Angelica, figlia di Pantalone. Nessuno osa opporsi se non Orlando, «l’uomo che resiste», senza patria «da quando cerca quella in cui non regna l’ingiustizia». Orlando convince la folla a battersi contro i soprusi e per Angelica, e fronteggia il Reggente.
Uno dei grandi teatranti del Novecento, Georges Pitoëff, regista e interprete nel ’23 di una storica edizione dei «Sei personaggi in cerca d’autore», mette in scena «Angelica» il 20 ottobre 1936 al Théâtre des Mathurins di Parigi. Autore del testo un italiano, Leo Ferrero, morto nel ‘33 a Santa Fe, nel New Mexico, all’età di trent’anni. Una breve parabola ricca però di avvenimenti e incontri importanti. Il suo «Diario di un privilegiato sotto il fascismo» rappresenta sin dal titolo una condizione e un destino. Il privilegio di appartenere a una coltissima e benestante famiglia della elite ebraica torinese, e la sorte insita in quella condizione: l’esilio, in patria anzitutto. Figlio dello storico Guglielmo Ferrero, più volte sulla soglia del Nobel, e nipote dell’antropologo Cesare Lombroso, Leo è di casa fra Torino e Firenze negli ambienti della cultura italiana che si oppone al fascismo, da Einaudi a Debenedetti, da Salvemini a Gobetti e a Leone Ginzburg, allo stretto legame con riviste come il «Baretti» e soprattutto «Solaria». Gina Lombroso, la madre, è autrice di studi psico-sociologici sulla condizione femminile e amica di Amelia Rosselli: di qui l’affettuoso legame di Leo con Nello e Carlo Rosselli. Vicinissimo a Giovanni Amendola, Guglielmo Ferrero firma nel’24 il manifesto dell’«Unione nazionale delle forze liberali e democratiche» che si oppone al fascismo «in nome dell’esistenza dello Stato legale». Sarà poi con Mario Berlinguer, Roberto Bencivenga, Ugo La Malfa e Mario Vinciguerra nel direttivo dell’Unione fino allo scioglimento.
L’ostracismo del regime e del mondo accademico verso Guglielmo non impediscono a questi di introdurre Leo, che già si è cimentato come drammaturgo con «La chioma di Berenice», nell’ambiente teatrale romano: grazie a Corrado Alvaro viene chiamato da Pirandello e D’Amico a far parte del Teatro dei Dieci, un gruppo di giovani autori che dovrebbero rifondare la scena italiana. «Le campagne senza Madonna» viene messo in scena con buone recensioni nel maggio del ’24 al teatro Moderno di Roma, e per due anni Leo inizia una prolifica ed eclettica attività di pubblicista per testate italiane e francesi, di poeta e, a quattro mani con il padre, di storico. In un clima di terrore segnato dalle recenti morti di Gobetti e Amendola, i Ferrero, residenti a Firenze dal 1916, si trasferiscono all’Ulivello nell’aprile del ’27 in una condizione da confinati in casa, oggetto di sorveglianza continua, abusi e minacce. La sospirata concessione dei passaporti in novembre consente a Leo e alla sorella Nina la partenza prima per l’Inghilterra e di lì per Parigi. È l’esilio vero, desiderato e consapevole del privilegio: «Io non voglio fare il martire (non è un martire un giovane che va a stabilirsi a Parigi con 2000 franchi al mese, e accolto da tutti con simpatia)», come scriverà in una lettera. Fra i suoi mentori Paul Valery, che scrive la prefazione all’edizione a stampa della tesi su Leonardo da Vinci con la quale Leo si è laureato in Storia dell’Arte a Firenze. Come per tanta parte della cultura italiana che guarda all’Europa, il francese diventa la sua lingua d’elezione: è il corrispondente da Parigi di Solaria, in francese scrive saggi di varia natura e in poche settimane, all’inizio del ’29, «Angelica». L’anno dopo anche i genitori possono espatriare rifugiandosi a Ginevra, dove Guglielmo otterrà finalmente la cattedra di Storia contemporanea all’Università. Nel ’32 Leo viene segnalato da Luigi Einaudi alla Rockefeller Foundation per una borsa di studio in ricerche sociologiche alla Yale University. Si trasferisce negli States e qui muore in un banale incidente automobilistico. Viene sepolto il 23 settembre 1933 a Ginevra, poco lontano dalla tomba del riformatore Calvino. Sarà l’amico Aldo Garosci, dopo la disgrazia incaricato di portare le carte di Leo da Parigi a Ginevra, il primo lettore di «Angelica». I genitori hanno avuto fino ad allora notizie della piece solo da lettere del figlio. Si danno da fare proponendo l’allestimento – cui contribuiscono finanziariamente – ai coniugi Pitoëff, che Leo ha frequentato assiduamente. La Parigi del Front Populaire, isola seppur precaria fra i totalitarismi continentali, è d’altronde il solo luogo dove lo spettacolo possa essere rappresentato, con un pubblico di associazioni operaie che quei temi è capace di apprezzare in chiave pedagogica e militante. Suggestioni in tal senso non mancano. Sconfitto, il Reggente spiega a Orlando come si possa esercitare il potere «invece di battersi e di rischiare la vita per gli uomini»: «li ho calpestati, mi hanno acclamato; li ho spogliati, mi hanno sorriso; li ho comprati, beffati, ingiuriati, imprigionati, violati e mi hanno ricambiato con degli inchini! Uomini sciocchi e ignoranti, voi amate solo chi vi somiglia? Voi rispettate soltanto chi è peggiore di voi? Bene, io sarò più stolto e più briccone di voi! Briccone fra i bricconi, stolto fra gli stolti, sono stato quale mi volevano: indifferente, crudele, senza pietà, egoista, bandito». Solo un venticinquenne come Leo poteva declinare Machiavelli nel secolo ventesimo parafrasando il fascismo come autobiografia della nazione. E parimenti esplicitare – anche ingenuamente – la polemica antidannunziana che della intellettualità nella quale era cresciuto costituiva fra i temi di più vigoroso impegno: il Reggente è un poeta, creduto un grande uomo di Stato «perché sparava i cannoni nel suo giardino, quando riceveva i banchieri che gli portavano del denaro». Dall’altra parte, Orlando è un eroe diciamo aventiniano, ha ben chiari i principi della democrazia liberale ma non è capace di assumersi le responsabilità del capo: «Buon governo è quello che non obbliga mai i cittadini a trasgredire la legge per difendersi. Là dove non c’è legge i cittadini si divorano tra loro, il fratello tradisce il fratello, l’amico abbandona l’amico, non c’è che l’astuzia e la bassezza che contino per salire. I giudici condanneranno l’innocente, i critici loderanno i libri peggiori, i lestofanti diventeranno ministri». E dietro la malinconia dell’eroe traspare lo sguardo commosso che l’esule Ferrero volge al proprio Paese lontano: «questa disgraziata città troppo bella, rivestita di marmi, corrosa dall’invidia, straziata, affamata e luccicante! La sua grandezza l’estenua, eterno crepuscolo. Dove mai la grandezza e il sacrificio furono così sterili come sotto questo gran sole?». Alla domanda sull’esistenza di un testo teatrale italiano antifascista coevo al regime, con «Angelica» si risponderebbe positivamente. Dopo una messinscena a Firenze nel 1946 da parte di Alessandro Brissoni, solo due sono gli allestimenti italiani. Nel 1948 presso il Teatro delle Arti di Roma con regia di Lucio Chiavarelli (e Pantalone interpretato da Mario Scaccia) si mettono in luce nei ruoli di Orlando e Angelica due giovani che ben manterranno in seguito le promesse di quell’esordio: Marcello Mastroianni e Giulietta Masina. Nel 1959 Gianfranco De Bosio dirige alla Biennale di Venezia l’allestimento dello Stabile di Torino con Luigi Vannucchi e Valentina Fortunato, ed Ernesto Calindri nel ruolo del Reggente. Le musiche di scena sono di Sergio Liberovici, Franco Antonicelli scrive i versi di tre canzoni. Poi più nulla.
Opera senza epigoni, indisponibile a stampa per cinquant’anni (fino al 2004, pubblicata a cura di Paolo Puppa nella bella collana ‘Non solo Pirandello’ della Metauro edizioni di Pesaro, www.metauroedizioni.it) «Angelica» è iniquamente rimossa, anche solo dalle storie della letteratura teatrale (quel che resta della cultura teatrale italiana). Con tutte le acerbità del caso e della dedizione – a volte imbarazzante – di due genitori che nell’elaborazione del lutto misero mano in senso agiografico a biografia e testi di Leo. Il quale certamente operava nell’attualità storico-politica ma era anche autore cosmopolita, aperto alle suggestioni della cultura europea fra le due guerre. «Angelica» opera dunque impegnata, senz’altro: ma di etica politica più che di denuncia. La sua forza sta nel tono – seguendo Puppa – «ilarotragico» e nella presenza delle maschere: espediente nel senso migliore del termine, di sapienza di scrittura influenzata da decenni di fervida riscoperta della Commedia dell’Arte in tutti gli ambiti artistici e da parte delle Avanguardie. Ma fra i motivi di maggior interesse dell’opera c’è quello riassunto nelle parole che Guglielmo Ferrero vi dedicò nel programma di sala della ‘prima’ a Parigi: «Il suo soggetto è italiano: è la tragedia del potere, delle sue iniquità, delle sue menzogne e delle sue crudeltà, che da Dante e Machiavelli è l’ossessione di tutti i grandi spiriti della penisola». Quasi a fargli eco, in una lettera ai Ferrero del maggio 1934, Henri Bergson scrive: «Non so dirvi quanto mi abbia commosso la lettura di ‘Angelica’. È un filosofo ed un poeta, nutritosi in qualche modo l’uno dell’altro, che il mondo ha perso. Ed è anche a una di queste anime privilegiate che dobbiamo volgere il nostro pensiero tutte le volte che siamo tentati di disperare dell’umanità».